Fuori un caldo soffocante, opprimente. Agosto bussa alle porte e, se questi sono i presupposti, prepariamoci ad altre giornate canicolari con il brontolio in sottofondo di chi suda anche a respirare e chi ,invece, prova a fare spadaccino con l’afa affidandosi al ritornello “ai miei tempi era anche peggio”. Ricordi, discorsi e ricorsi storici che tornano, di anno in anno, ciclicamente. Come se il tempo non passasse per tutti e come se fosse del tutto normale “fare il bagno nella Senna”.
Con la…Senna di poi, possiamo dirlo, si poteva evitare. Forse, almeno in questo, vincerà il buonsenso e la razionalità. Ma nell’Olimpiade del tutto è possibile non c’è da stupirsi più di tanto. E allora non resta che aggrapparsi alle storie che Parigi regala e provare a trarne insegnamento. I cinque cerchi che colorano la Tour Eiffel sono lì per dircelo ancora una volta: se non fosse il motto simbolo della Nazione, “Liberté, Égalité, Fraternité” potrebbe essere lo slogan di un Olimpiade già ricco di storie di vita.
C’è il valore olimpico che potrebbe e dovrebbe insegnare cosa è, in fondo, lo sport. C’è l’ agonismo che guai se manca, ma c’è anche il valore di una sconfitta che segna, insegna e se possibile si trasforma in qualcosa che scotta ma non brucia. Parigi 2024 è l’anno delle mascotte Phryges, la cui missione è tramandare “il messaggio che lo sport può cambiare tutto e merita un ruolo nella società”.
E allora come lo spieghi a Filippo Macchi che anni di sacrifici brillano “solo” di argento perché si è deciso di non decidere? E se il mondo urla allo scandalo, lo schermidore si mette in cattedra e spiega a tutti quello che, poco fa, abbiamo chiamato spirito olimpico. “Ne ho sentite di ogni, eppure a me viene da sorridere perché sono un ragazzo fortunato. Ho 22 anni, una famiglia stupenda, degli amici strepitosi e una fidanzata che mi lascia costantemente senza parole. Sono arrivato secondo alla gara più importante per ogni atleta e proprio perché pratico sport mi hanno insegnato che le decisioni arbitrali vanno rispettate, sempre. Conosco gli arbitri e non mi viene da puntare il dito contro nessuno e colpevolizzarli del mio mancato successo, anche perché non porterebbe a nulla se non a crearmi un alibi. (…) tempo fa una grande campionessa mi ha insegnato che una medaglia si festeggia sempre (…)”. Quella al collo sarà anche d’argento, ma poco conta se hai il cuore tinto di oro.
Nei libri degli eroi di Parigi 24 ci sarà indiscutibilmente il nome di Nathalie Moellhausen, spadista che è scesa in pedana dopo aver trascorso i giorni precedenti in ospedale per un ricovero d’urgenza nella sua lotta contro un tumore al coccige. Il richiamo delle Olimpiadi è stato più forte, anche a costo di dover interrompere il match per i dolori e svenimenti, prendere fiato e portarlo a termine pur senza successo. In fondo, la vera sfida – sempre spada in mano – è quella di tirare la stoccata più importante di tutte.
Sempre dallo schema arriva la storia di Nada Hafez, passata agli onori delle cronache per aver vinto il primo match in un Olimpiade incinta di sette mesi. “In pedana eravamo in tre: io, la mia avversaria e il mio bambino. Le montagne russe della gravidanza sono già di per sé difficili, ma dover lottare per mantenere l’equilibrio tra vita e sport è stato a dir poco faticoso, anche se ne è valsa la pena. Ho voluto dimostrare la forza, la perseveranza e l’implacabilità della donna egiziana – ha puntualizzato -. E vincere contro la campionessa americana, numero 7 del ranking mondiale, è una chiara dimostrazione di ciò che un’atleta egiziana, un medico e soprattutto una donna possono fare”. Poco importa se ha salutato la competizione subito dopo: la medaglia più bella – per Nada – deve ancora arrivare.