“Non farlo, non farlo. Posa quella penna”. Ho provato a dare ascolto al diavoletto interiore, sabotatore di una coscienza che ti spinge a fare il contrario di quello che pensi di pensare. Ho provato a fare finta che la partenza di ‘Kvara’ fosse una come tante altre, come un qualunque scontento con le valigie in mano in un freddo gennaio.
Ho fatto finta di pensare che la delusione per l’addio del georgiano potesse finire in quel classeur con l’etichetta “cose belle da dimenticare”. Forse troppo bello per finire lì dentro. Forse troppo bello per poterlo dimenticare. Perlomeno in fretta. Nei saluti di rito, Kvra, ha promesso di “raccontare tutto”. La stessa promessa che, interiormente, hanno stretto tutti coloro che con i propri occhi hanno ammirato il 77 in azione. Sei mesi da marziano e qualche sprazzo di normalità sono valsi un posto nella leggenda e tra le leggende di Napoli e del Napoli. E, senza scomodare gli Dei, serve poco per capire chi sono le “figurine” che compongono il libro sacro.
Eppure, quel giocatore dal nome difficilmente pronunciabile, e ancora più difficile da scrivere, ha smosso le coscienze. Quel “Dona” come suffisso per richiamare una certa somiglianza con colui che del Napoli ne è simbolo anche dall’adilà. Essere accostati a Maradona è già di per sé blasfemo, a Napoli è sacrilegio. Per dire l’impatto che ha avuto nell’immaginario collettivo quell’esterno che in campo parla una lingua tutta sua. La storia ci insegna che per ogni Kvaratskhelia ci sarà rimedio, ma vaglielo a spiegare alla coscienza che sarà come le altre volte.
Vaglielo a spiegare che, da qualche parte del mondo, c’è un giocatore che incarna l’arte napoletana, fatta di genio, fantasia e leggerezza anche nei momenti più bui. Vagli a spiegare, però, che non indossa la maglia azzurra. Come i colori del cielo, che oggi sarà certamente più grigio. Forse anche più triste, perché Kvara andrà anche nella città dell’amore. Ma una città innamorata perde il suo raggio di sole. E allora, boa sorte, Khvicha.