C’era un tempo in cui il pugilato era una questione di miti e di leggende, di uomini forgiati nel fuoco della gloria e della caduta. George Foreman era uno di questi. Gigante nel fisico, devastante nei colpi, ma soprattutto protagonista di una delle storie più incredibili che la boxe abbia mai raccontato. Oggi, il suo nome si unisce alla schiera degli immortali, o almeno questo sembra il ruolo destinato a chi ha scritto pagine di storia dello sport.
Foreman non era solo il campione che nel 1973 demolì Frazier in due riprese, né soltanto l’uomo che deteneva il titolo del mondo in quella notte d’Africa che cambiò tutto. The Rumble in the Jungle. Kinshasa, 30 ottobre 1974. Il mondo assisteva alla sfida tra un titano e un profeta. Foreman, la forza della natura, il demolitore invincibile. Ali, il ballerino del ring, il poeta del pugilato, il genio per riassumere.
Premessa: di pugilato, chi scrive, non se ne intende. E “The Rumble in The jungle” l’ho “rivissuto” solo nei testi e solo in uno video che mio padre ripeteva avrei dovuto vedere. E se mio padre suggerisce, io eseguo. Perché so che alla base c’è la volontà di insegnarmi ancora qualcosa.
Kinshasa, 30 ottobre ‘74. Welcome nella leggenda. Giganti a confronti. L’inizio di qualcosa di più grande. Foreman arrivava da favorito e Ali aveva un piano: Il rope-a-dope, il suicidio apparente. Assorbire, resistere, lasciar sfogare il mostro fino a svuotarlo. Ottavo round. Una schivata, un lampo, un destro chirurgico. Il gigante crolla. Il mondo resta senza fiato. La boxe non sarà mai più la stessa.
Foreman, da quella sconfitta, conobbe il buio. Sparì, si ritirò, trovò Dio. Poi tornò. Più pesante, più lento, ma con una pace interiore che nessun altro aveva mai mostrato su un ring. Nel 1994, vent’anni dopo Kinshasa, divenne il campione del mondo più anziano della storia. Un uomo che aveva picchiato e che aveva incassato, che aveva vinto e aveva perso, ma che alla fine aveva trovato il modo di riscrivere il suo destino.
Con la sua morte, la boxe perde un pezzo della sua storia. Ma i miti non muoiono. Restano nelle immagini in bianco e nero, nei racconti, nei colpi che riecheggiano ancora nei guantoni che si sfiorano prima del combattimento. Restano nelle notti leggendarie, nei cori “Ali Bomaye” (Ali, uccidilo), nei filmati suggeriti perché certe notti non vanno dimenticate.
Ritmi di vita sempre più vertiginosi, informazione globale e processi evolutivi accelerati: il mondo social, ormai da qualche anno, ha imposto nuove leggi nella vita di ognuno. Di ciò, è pietra miliare l’ambiente sportivo, storicamente avanguardista nello sposare nuovi trend e movimenti. E se è vero che la bontà del proprio lavoro non sempre si riflette nel numero di follower, la favola social del FC Balzers merita di essere raccontata.
Se a molti questo nome non dirà nulla, non c’è niente di cui preoccuparsi. La protagonista di questo approfondimento è una formazione del Liechtenstein che compete nel Gruppo 4 di Seconda Lega Interregionale. Al giro di boa i gialloblu occupano il sesto posto del loro girone con 7 vittorie, 2 pareggi e 6 sconfitte. Una stagione anonima, da metà classifica.
Una neutralità che viene presa in mano, appallottolata e lanciata via giusto un paio di settimane fa. Valentin Scarsini, influencer argentino che abita a più 11 mila chilometri di distanza da Balzers, decide di dedicare la sua ricerca ai club con meno tifosi al mondo, posizionando il Balzers in cima alla lista (in base ai follower social). Di lì, l’iniziativa: chiedere a tutti i propri seguaci digitali di rendere grande la formazione del principato in un’operazione di unione della “comunidad futbolera“. Detto fatto: a due settimane di distanza, il profilo Instagram del Balzers ha superato quota 390 mila (trecentonovantamila) follower e la società si è vista “costretta” ad aprire anche un proprio profilo TikTok.
Oggi i gialloblu sono ufficialmente la società di calcio più seguita del territorio elvetico: più del Basilea (che ha celebrato il sorpasso allo stadio), più dello Young Boys, 6 volte il nostro Lugano. E i giocatori, diventati star social, hanno anche prodotto un video per augurare buone feste al loro, questa volta è proprio il caso di dirlo, primo tifoso.
C’è uno nuovo sceriffo in città. Charles Leclerc si veste da cowboy nel circuito di Austin e porta al galoppo il suo cavallo rosso, che oggi brilla di oro. Il “predestinato” vince nel mondo più leclerchiano possibile: gioco di prestigio d’intelligenza al via e tutti rimasti a bocca aperta. Per buona pace di Max Verstrappen e Lando Norris, protagonisti di una gara infuocata che aggiunge pathos e fascino nella corsa alla corona.
Nella terra di Cordell Walker, “Super Max” indossa il cappello western e torna a sparare e sperare che i colpi in America siano più forti delle colpe di una Red Bull che nell’ultimo periodo sembrava prive delle famose ali. Maxesterclass del campione del mondo.
Ad Austin è però festa Ferrari: nella terra dei cavalli galoppa il cavallino. Bentornata, Formula 1!
Il suo nome e volto hanno cominciati a diventare noti nel mondo del calcio italiano tra il gennaio 2019 e il settembre 2022. Lui, Emilio De Leo, però non ha mai smesso di lavorare e di essere innamorato del calcio. Scelto da Sinisa Mihahlovic come collaboratore stretto, De Leo ha vissuto al fianco del compianto allenatore serbo le avventure con Serbia, Sampdoria, Milan, Torino e, infine, Bologna. Propriò in rossoblù – durante la degenza di Sinisa – ha guidato il Bologna in campo e nelle conferenze stampa. Celebre il video nell’intervallo tra Bologna e Inter, gara costata lo scudetto ai neroazzurri (che stasera, a proposito, possono riprendersi quanto sfuggito). Lì emerge la passione, il carisma, le competenze tattiche di un allenatore che recentemente ha ottenuto il diploma UEFA Pro con la tesi “la grande bellezza”. Ospite di “Doppio Passo” su Radio 3i, De Leo si è espresso così.
Il calcio è bellezza in mille forme?
“Dico di sì, o quantomeno dovremmo cercare di farlo diventare tale. Abbiamo il dovere di difendere la bellezza che il calcio porta con sé. Deve tornare a essere una priorità”.
Dodici anni al fianco di Sinisa. Quanto c’è di Sinisa nella tua tesi?
“C’è tanto perché io parlo di un percorso, parlo di difficoltà, di gioie, ma anche sofferenze che abbiamo dovuto condivididere. Quello che Sinisa mi ha trasmesso è la capacità di affrontare e guardare in faccia ogni tipo di avversario e difficoltà, senza fare mai ricorso a nessun tipo di alibi e contando sempre sulle proprie forze”.
Volto e guida del Bologna durante la degenza di Sinisa. Che esperienza fu?
“Intensissima. Si dovevano mantenere gli equilibri e dovevamo portare a casa risultati in un periodo non facile. Dall’altra parte, volevamo dare una gioia e soddisfazioni a Sinisa. Io e tutto il gruppo ci sentivamo doppiamente responsabili da quel punto di vista. Mi sono assunto delle responsabilità con freddezza perché occorreva farlo e rientra nel mio carattere. Mi piace pensare che accanto ai risultati in campo c’era la gioia di dare serenità al nostro allenatore che ne aveva tanto bisogno”.
Adesso c’è la volontà di guidare una squadra tutta tua?
“Prima del rapporto con Sinisa allenai per una decina di anni da primo allenatore, chiaramente a livelli diversi. Ho fatto esperienze in questi anni, tra cui l’ultima a Bologna. L’obiettivo è sicuramente quello e mi farebbe piacere trovare il contesto giusto. La mia idea è quella di riuscire a esprimermi attraverso un percorso che possa portare gioia e soddisfazione. Valutiamo tutte le possibilità che ci sono, ma sì mi piacerebbe”.
Appassionato di arte, calcio e arte possono andare a braccetto?
“Sì, il calcio è un’arte. Tutto ciò che riusciamo a generare per esprimere noi stessi è arte. Che sia una canzone, un’opera d’arte, uno schema o idea di gioco. Quando riesci a creare qualcosa di entusiasmante con le tue mani e con le tue idee penso sia il massimo. E il calcio è assolutamente un mezzo per esprimere noi stessi”.
“Sinisa mi ha insegnato a guardare in faccia ogni difficoltà e ogni tipo di avversario, senza fare mai ricorso a nessun tipo di alibi e contando sempre sulle proprie forze”.
Emilio De Leo a “Doppio Passo”
La grande bellezza è anche il Bologna di Thiago Motta?
“Sicuramente sì perché si sta creando quella magia. C’è un’energia e uno studio continuo di bellezza tra ciò che la squadra esprime in campo e come il pubblico riesce a vivere questi momenti. C’è un piacere diffuso. Stiamo vedendo quello che Spalletti ha fatto a Napoli per certi versi. Mi fa molto piacere quando viene riconosciuto che parte di questo processo sia iniziato con noi”.
Che notte, quella appena trascorsa di Champions League. Che notte, quella di Real Madrid e Manchester City. Roba da popcorn e birre a fiumi per gli amanti del divano, roba da fiumi d’inchiostro per gli analisti. Roba da stroppiciarsi gli occhi per i semplici appassionati. Se ancora esiste – ed esiste – chi ama il calcio, ‘sprecate’ un ora e trentasette minuti per fare vedere ai più piccoli l’andata dei Quarti di finale di Champions League tra due corazzate belle e impossibili. Fate vedere, per il bene di questo sport, come si può tradurre ‘cos’è il calcio vero’.
Gol uno più bello dell’altro con Valverde che risponde a Foden nella gara di chi si porta a casa il premio di gol più bello della serata. Nell’epoca di chi fa a gara a chi non ha più tempo, basterebbero anche gli highlights di un folle Real-City 3-3.
Il confronto tra due geni della panchina si è per ora risolto con un “ci vediamo a Manchester”. Poi uno dei due, tra Ancelotti e Guardiola, resterà a guardare l’altro. E sì, può far ridere ma anche piangere sapere che nelle migliori quattro ce ne sarà soltanto una. E forse sta qui la blasfemia di un calcio che, in fondo, ci piace anche così.
Agonismo ed estetica, perfezione nella confusione di 90’ che purtroppo non passeranno alla storia, anche se contribuiscono a scriverla. Che notte, quella di un calcio che vorremmo sempre vedere.
Viviamo in un’era dove la timidezza viene spesso confusa con pigrizia. Basta un clik per non fare più fatica: motori di ricerca, siti e intelligenze artificiali ci forniscono risposte immediate alle nostre domande. Le canzoni più belle le scelgono gli algoritmi di Tik Tok e “viaggiare” ed aprirsi a nuove culture è possibile con la “fatica” di guardarsi tre reels. Pregi e difetti di un’epoca, quella della Gen Z – così la chiamano -, che tutto ricorda e niente dimentica.
E che bello sarebbe se tutti quelli che badano più alla percentuale del telefono che alla compagnia avessero letto la lettera aperta di Endrick, la stella brasiliana pagata a peso d’oro per vestire – dalla prossima stagione – la maglia del Real Madrid. Classe 2006 e dotato di talento puro, il promesso sposo dei Galácticos si è tolto lo sfizio di segnare i primi gol con la nazionale brasiliana ancora in minore età. Uno all’Inghilterra e uno alla Spagna. Dove? Al Bernabeu, chiaramente. Poteva essere altrimenti? Certo che no. D’altronde – e lo sa bene Giuseppe Sannino – “è già tutto scritto”.
Potete pure credere alle coincidenze. E in questo caso di scritto rimane la lettera di un 17enne destinata al fratello di 4 anni, Noah. Parole che accarezzano anche il cuore più freddo, l’animo meno sensibile. Un inno alla vita, ai sacrifici. Il bacio d’addio ai genitori prima di diventare grande. Anche se grande, Endrick, lo sembra già. E non solo in campo.
“Caro Noah, ti voglio bene. Ed è la cosa più importante. Non te l’ho mai detto, ma quando stavi per nascere, in realtà aspettavi che io segnassi un gol. È vero, fratello. Io in quel periodo giocavo una partita importante, avevo appena 13 anni, ma tu non volevi ancora entrare in questo mondo. L’orologio ticchettava e ticchettava, e mamma e papà si chiedevano cosa stavi aspettando. Poi all’improvviso papà ricevette una telefonata dal suo amico che era alla partita. Disse: ‘Douglas!! Douglas!! Endrick ha appena segnato!!’. E poi, in quell’esatto momento, tutto quello che hai sentito nella stanza d’ospedale è stato wwaaaaaaahhhhhhh!!!!!!. Finalmente sei uscito per festeggiare con me. Quando sono arrivato in ospedale, ti ho fatto un regalo di compleanno. Non avevo soldi per un giocattolo, ma ti ho preso la palla d’oro del torneo. Capisci?”. Capite?
“Non siamo nati ricchi, siamo nati nel calcio. La vita di adesso ce la siamo guadagnata con sudore e fatica”.
“Nella nostra famiglia non siamo nati ricchi. Siamo nati nel calcio. Non so quando leggerai questa lettera, ma in questo momento hai quattro anni e le nostre vite stanno cambiando molto rapidamente. Nei prossimi mesi andrò in Spagna a giocare per il Real Madrid – sì, la squadra che prendo sempre alla PlayStation quando mi guardi. Ero convinto che ce l’avrei fatta e la mamma piange ancora quando se ne ricorda. Prima non vivevamo in un appartamento elegante come adesso. Vivevamo in un posto chiamato Vila Guaíra e la nostra vita era molto diversa. Negli anni a venire sentirai tutto della nostra vita dagli altri e diranno che era tutto dolore e miseria. Ma la verità è che ho vissuto un’infanzia meravigliosa, grazie a Dio e grazie a tutto ciò che mamma e papà hanno sacrificato. E grazie al calcio, ovviamente”.
“Mamma ha lasciato la sua vita a casa per sostenere il mio sogno a San Paolo. Il club aveva spazio solo per me, ma lei ha detto che non potevo andare senza di lei. Papà è rimasto a lavorare e a mandarci i soldi, e lei si è trasferita da me in una casetta insieme ad alcuni miei compagni di squadra. Tutti sotto lo stesso tetto. Ma quando andavamo ad allenarci, non aveva nessuno con cui parlare. Non avevamo la TV o Internet in casa, quindi portava la Bibbia al parco e si sedeva e parlava con Dio da sola. Tutto quello che aveva in quel posto era una sedia. Ci metteva sopra la borsa e, quando andavamo a letto, dormiva su un materassino steso per terra. So che è difficile per te immaginare la mamma che dorme sul pavimento, ma questa è la verità. Questo è realmente accaduto. La prossima volta che la vedi, abbracciala e dille grazie, perché senza i suoi sacrifici non avremmo la vita che abbiamo oggi. Anche papà si è sacrificato molto. Dopo qualche mese venne a San Paolo per sostenerci, andò al Palmeiras e chiese al club qualsiasi lavoro potesse ottenere. Avevano un posto come addetto alle pulizie all’interno dello stadio. Da ragazzo aveva sempre sognato di essere in quello spogliatoio, quindi andava a lavorare con il sorriso. Lavorò lì per tre anni, prima raccogliendo la spazzatura attorno allo stadio e poi ottenendo la promozione per pulire lo spogliatoio della prima squadra. Diceva ai giocatori che un giorno suo figlio avrebbe giocato con loro”.
“Mamma dice sempre che un singolo errore può far crollare tutto e ha ragione. Nel momento in cui dimentichiamo da dove veniamo, rischiamo di perdere la strada”
Lettera di endrick al fratellino noah
“Un giorno, il portiere Jailson notò che papà stava diventando sempre più magro. Nella mensa, gli addetti alle pulizie e il personale mangiavano con i giocatori e lui notò che papà mangiava solo zuppa. Quindi mise un braccio attorno a papà e ha detto: ‘Ehi Douglas, dammi il tuo telefono, voglio chiamare tua moglie’. Chiamò la mamma e lei gli raccontò la storia di come papà si fosse bruciato la mano da bambino durante un barbecue e di come fosse stato così grave che quasi l’avesse persa. Gli somministrarono farmaci forti per combattere l’infezione e questo gli aveva indebolito i denti. Per cui poteva mangiare solo zuppa. Jailson raccolse soldi da tutti i giocatori e diedero a papà i soldi per farsi riparare i denti. Il suo sogno era mordere una mela: oggi, grazie a Dio, può mordere qualunque cibo voglia”.
“Spero che tu capisca ora, fratello. La vita che stiamo vivendo adesso non è venuta fuori dal nulla. Ce la siamo guadagnata, con duro lavoro e tante lacrime. La mamma dice sempre che un singolo errore può far crollare tutto e ha ragione. Nel momento in cui dimentichiamo da dove veniamo, rischiamo di perdere la strada. Ecco perché ti faccio questo dono della storia della nostra famiglia. Mamma che mangia il pane vecchio, papà che dorme sotto la biglietteria, la mamma che piange in bagno, papà che piange sul divano. Che tu possa tenerlo sempre nel tuo cuore. Ti voglio bene fratello. Dal profondo del mio cuore”.