Abbiamo sempre provato a cercare il lato romantico di Euro24, come cercatori di oro nel deserto assetati di qualcosa che sappia andare oltre. Oltre alla superficialità, che sia un gol in extremis o la giocata di classe. Abbiamo provato a superare la barriera delle emozioni, a palleggiare con storie e momenti che, in un modo o nell’altro, lasciano il segno.
Abbiamo scritto del gol del predestinato Yamal, della storia di Eriksen, dell’addio al calcio di Kroos, della serata da ricordare della Svizzera e della carezza del destino alla famiglia Merino. Non abbiamo scritto niente sulla Spagna, intesa come organizzazione di gioco. Non perché non sappia regalare emozioni, altroché, ma forse perché troppo facile farlo dopo essersi cucita addosso l’etichetta di favorita. Troppo facile farlo dopo aver preso a pallonate qualsiasi avversario capitato sotto tiro. Insomma, il successo della Spagna è voluto, sudato, cercato e per questo meritato (con lode). Perché De la Fuente ha orchestrato una macchina quasi perfetta che vanta individualità di cui sentiremo parlare. Altre, invece, hanno già fatto parlare di sé o lo stanno facendo in queste ore.
È il caso dell’uomo copertina del nostro Europeo, quell’Alvaro Morata capitano della nazionale spagnola. Eppure tra i più criticati delle furie rosse. ‘Nemo propheta in patria’, si leggeva nel vangelo. Anche se il calcio centrava poco e niente. Alvaro ha bucato la Croazia e poi più nulla. O meglio, poi tanta corsa, tanto lavoro sporco, tante sportellate e tanto sacrificio. Energie perse per una corsa difensiva in più, il piede mai tirato indietro a cospetto di un tabellino che sì non avrà fatto felici gli spagnoli, ma che non può essere giudice di chi per vocazione ha servito il suo paese con gli occhi assatanati.
Mentre la Spagna volava, il cuore di Alvaro lacrimava. Deve averne lette tanto per affermare “Amo la Spagna, ma sono più felice quando sono fuori”. Una frase forte, detta anche per difendere una famiglia (splendida), troppo spesso oggetto di insulti e minacce per dei gol che non arrivavano, per dei palloni persi, per dei risultati deludenti.
Altrove, leggasi Milano, Morata ci andrà. Sarà la prima tappa da cui ripartire dopo l’Europeo vinto da capitano. La valigia peserà un po’ di più, il cuore anche. Perché casa è casa, anche per chi fa fatica a riconoscersi in essa. La vera casa, il vero rifugio, di Morata sono stati sua moglie Alice e i suoi piccoli figli, corsi ad abbracciare subito dopo il fischio finale. L’abbraccio che mette il sipario sul nostro Euro24, che non ci avrà sempre fatto divertire ma da cui abbiamo imparato che essere umani è più bello che essere e basta.
“Credo negli essere umani, che hanno il coraggio. Coraggio di essere umani”.
È il 6 novembre del 1991. Le lancette degli orologi dello Neckarstadion – oggi Mercedes Benz Arena – stanno quasi per segnare le 21:00, quando il centrocampista dell’Osasuna Angel Merino trova il momentaneo 0-2 in casa dello Stoccarda in Coppa UEFA. Fate attenzione ai nomi, ai luoghi e alle storie. Perché forse aiutano a rispondere alla domanda “che cosa è il destino?”.
E che cos’è il destino se non un estroso passo di flamenco attorno a una bandierina del calcio d’angolo? Che cosa è il destino se non un hijo rojo che unisce padre e figlio nello stesso posto, con la stessa gioia nel cuore, 11930 giorni dopo?
Chiedetelo ad Angel e Mikel Merino, che cosa è il destino. Chiedetegli per quale assurdo e mistico, motivo lo stadio di Stoccarda avrà per sempre un posto speciale nella loro famiglia. Chi era e cosa ha fatto Angel lo avete capito. Il figlio, Mikel, lo trovate oggi su tutte le prime pagine dei quotidiani spagnoli: è l’uomo che ha deciso il quarto di finale contro la Germania siglando il 2-1 poco prima dei rigori. E poi via, di corsa alla bandierina per un altro giro attorno alla bandierina. La stessa esultanza di papà, nello stesso stadio. Scene che Mikel ha recuperato solo in VHS, emulando papà in salotto sognando, un giorno, di ripetere quell’esultanza con la maglia della nazionale.
Perché Stoccarda sara anche la patria di Mercedes e Porsche, ma anche il tempo sa essere veloce. E senza smentire Carl Gustav Jung nell’affermare che le coincidenze non esistono, a Stoccarda Mikel aveva debuttato con la nazionale maggiore della Spagna nel 2020.
E, qui, tra un giro attorno alla bandierina e l’altro, la famiglia Merino si sente a casa, anche se continuano a preferire i cordero al chilindrón al Maultaschen.
Quando vi chiedono come facciamo a seguire 22 persone che corrono dietro a una palla, rispondete che viviamo per storie come queste.
« Not yet », aveva scritto Toni Kroos qualche giorno fa dopo il passaggio del turno della sua Mannschaft ai Quarti di finale ad Euro24. Il gran finale è arrivato e, suo malgrado, è stato solo “finale”. Ad aggiungere “gran” ci pensa la carriera impressionante di uno dei centrocampisti più forti di sempre. Quella contro la Spagna è stata l’ultima volta del numero otto, che oggi va messo in orizzontale a formare l’infinito. Come infinito lo è stato Kroos nel corso di un cammino fatto quasi solo di successi e numeri che, a leggerli, sembrano non appartenere a questa realtà.
La beffa in salsa spagnola passerà, certo. La rabbia per un rigore più che solare non concesso passerà, certo. Non passerà quello che è stato Toni Kroos. Metronomo e cervello, razionalità e giocate che di normale avevano poco. Gli inglesi la chiamano “last dance”, i tedeschi non lo sappiamo. E va bene così. Anche perché Kroos è stato internazionale, nel senso letterale del termine. Amato da tutti (o quasi). E i pochi detrattori hanno perlomeno sempre riconosciuto lo spessore di un calciatore che avrebbe potuto giocare ai più alti livelli almeno per un paio di stagioni.
Non si è mai pronti agli “addii”. E stavolta non ci salverà la solita frase di “Febbre a 90°” “ci sarà sempre un’altra stagione”. Perché no, non ci sarà più un’altra stagione per Toni Kroos. Ci piace pensare che un bambino sugli spalti abbia chiesto al papà, “ma chi è stato Toni Kroos?”. Semmai ci fosse stato, la risposta è tutta qui: 832 partite in carriera, 80 gol, 6 (!) Champions League vinte, 6 mondiali per club vinti, 5 Supercoppe europee vinte, 4 campionati spagnoli vinti, 4 supercoppe spagnole, 3 campionati tedeschi, 3 coppe di Germania, 1 Supercoppa tedesca, 1 copa del Rey e, last but not least, una coppa del mondo. Tradotto: mancava solo un trofeo all’appello, l’europeo. Dove si è chiuso, tra il pubblico di casa, il cammino da giocatore di Toni Kroos. Sarebbe stato disumano anche per un alieno chiudere in questo modo.
Che fortuna poter raccontare chi è stato Toni Kroos!
C’è un bambino che piange e un adulto (anzi di più) che bambino lo è tornato e si diverte a fermare le macchine sulla strada. C’è la radio in sottofondo sovrastata dal rumore dei clacson. Sono le immagini che mi accompagnano pochi minuti dopo al termine di Svizzera-Italia 2-0. In Italia, invece, le strade sono deserte. Lì, li chiamerebbero caroselli. Oggi, e non lo dimenticheremo facilmente, tocca al di qua del confine. Chiamatelo ancora un gioco, adesso. Sì, ma che gioco.
Come quello di una Svizzera che, zitta zitta, ha finora espresso uno dei migliori giochi di Euro24. Come quello disegnato ad arte dal sempre criticato Murat Yakin. Non me ne voglia Lucianone Spalletti, ma questa volta non ci ha capito niente. Al netto di una Svizzera che invece ha baciato la perfezione sia in fase di atteggiamento che a livello di impostazione tattica. E forse, questa volta, a Coverciano dovrebbero prendere appunti.
Il successo della Svizzera nel derby contro l’Italia va oltre al tifo, alla partita in sé stessa e alla storica portata della vittoria ottenuta. Freuler e Vargas regalano ai tifosi svizzeri una liberazione più grande, che restituisce anni di bocconi amari, di sfottò e di anonimato.
Freuler e Vargas condannano l’Italia che, al contrario della Svizzera, pensava di essere già ai Quarti senza passare dal campo. E il campo, questa volta, ha regalato una serata che non varrà un titolo europeo, ma poco ci manca. La Svizzera di Yakin restituisce al suo pubblico una serata da stampare, conservare e tirare fuori al grido di “io c’ero”.
Si, c’è davvero Svizzera-Italia e mai come questa volta non sembrano esserci favoriti. Sì, c’è davvero Svizzera-Italia e – a dipendenza di cosa dirà il campo – conta più di un ottavo di finale. Finalmente un senso all’estate, malgrado qualcuno dovrà giocoforza limitare le notifiche del telefono al minimo indispensabile. È il prezzo da pagare per chi si aspettava e non lo dice, per chi ha maschera il timore sabotando le aspettative. È il prezzo da pagare per credere in qualcosa di più forte.
Ci sarà anche chi dice che il calcio è solo un gioco. Nel dubbio, non ascoltatelo. Sarà anche un gioco, ma è il più bello del mondo. Dal derby di sabato passa il futuro, che il passato già non conta più. Sarà Svizzera-Italia e con le strade deserte aspettiamo il vincitore.
Novanta minuti, lo insegna la storia, possono anche durare una vita. Basti pensare che chi è nato dopo il 1993 non ha mai visto la Svizzera battere i cugini. L’ultimo a giustiziare l’Italia fu Marc Hottiger nel match di qualificazione per USA ’94. Altri tempi, altri interpreti e altre storie.
Sabato nuovo appuntamento con la storia, ma per ora continuiamo a fare finta che Svizzera-Italia non sia uno dei regali più belli di Euro24.
Lo chiamano il male oscuro. Perché penetra l’animo e ti consuma il sorriso. Ti prosciuga le energie senza né possibilità né capacità di accorgersene. E se te ne accorgi, spesso, è già troppo tardi. La chiamano il male oscuro perché non esiste, in fondo, una via precauzionale. Quando arriva colpisce forte, incurante di chi si trovi davanti. Ci sono cose che nemmeno un esagerato conto in banca può evitare. E chissene frega se sei un calciatore di respiro internazionale. La depressione non concede sconti.
Ci sono avvenimenti che non bussano alla porta. Arrivano quando vogliono loro, come un lampo di genialità su un campo da calcio, come una giocata palla al piede in grado di farti alzare in piedi sul divano. Pennellate di destro e di sinistro che smentiscono chi sostiene che il calcio non sia un’arte. Ci sono, però, avvenimenti che tutto questo possono strapparlo via. Forse per sempre, forse solo per un periodo. Sei solo con la tua testa e vince chi è più forte.
Josip Ilicic, ora, sorride di nuovo alla vita. Una della più belle notizie che ci ha regalato Euro24. Talento puro e classe cristallina, l’ex Atalanta e Palermo è tornato a giocare in una competizione europea con la maglia della sua Nazionale, la Slovenia. Pochi giorni prima, aveva trovatoa anche la via del gol, sempre in Nazionale, spazzando via il periodo più triste della sua vita.
“Grande Jojo. Dobrodosel nazaj”. Bentornato, nella nostra lingua. Uno striscione che vale più di mille parole dopo tre anni di assenza dai grandi palcoscenici. Uno sprazzo di luce che torna a splendere al termine di un tunnel iniziato con la pandemia. Questo ci ha insegnato Ilicic, c’è sempre luce alla fine di ogni battaglia. Che sia un tiro sotto al sette, o nelle sfide più importanti.
“Non sono ancora finito. È solo la seconda parte della mia carriera”, ha detto Ilicic poco prima dell’Europeo. Poi, l’abbraccio con Eriksen che ha commosso chi sa vedere oltre a una sfida di pallone. La sfida delle seconde volte, viene da dire, la vince solo chi ha avuto il coraggio di affrontarle.